La salute non può essere definita come “completa assenza di condizioni o patologie fisiche o mentali”.
Questo perché di fatto per svariate ragioni alcune persone possono sviluppare condizioni o patologie fisiche o mentali: la nostra salute infatti è determinata da diversi fattori che si intersecano tra di loro, molti dei quali esulano la responsabilità dell’individuo.
La salute dovrebbe essere considerata quindi piuttosto -riprendendo le parole di Aaron Antonowsky- come un processo attraverso il quale le persone cercano di gestire i cambiamenti in sé e dell’ambiente per coltivare il proprio equilibrio di benessere coerente rispetto ai propri autodeterminati valori e possibilità; questo equilibrio varia nel tempo e a seconda delle circostanze per ogni individuo.
Nel 2011 è stata proposta la seguente definizione di salute come la “capacità di adattamento fisico, cognitivo e sociale ai continui cambiamenti dell’ambiente” (Huber et al., 2011). Un equilibrio dinamico.
Volendo fare un esempio, quindi, per una persona che soffre di diabete la salute potrebbe rappresentare il mantenere un buon compenso della patologia nella vita quotidiana (sapendo come gestirsi a livello alimentare per evitare episodi di scompensi glicemici, praticando l’attività fisica di benessere che riesce a fare che può migliorare la sensibilità insulinica, assumendo terapie e integratori utili…) e limitarne il peggioramento.
OLTRE IL SALUTISMO: L’AUTODETERMINAZIONE DEL PROPRIO BENESSERE E VALORI
La “piena salute” non è più quindi un obbligo o un dovere morale come lo è nella concezione salutistica che porta a giudicare moralmente le persone affette da patologie come “meno capaci di prendersi cura di sé”. La salute è bensì una dimensione strettamente personale che si interseca necessariamente con i valori individuali: lo stato di salute non dovrebbe mai essere usato per giudicare, discriminare o attribuire un valore alle persone.
Volendo fare un esempio: lo sport d’agonismo ad alti livelli in moltissimi casi compromette la salute dell’individuo perché significa spingere il corpo e la mente oltre limiti fisiologici, o alcuni sport -come l’arrampicata in “free-solo” (senza corda e imbrago)- comportano la concreta possibilità di infortuni anche gravi o morte.
È compito della società e dell’ambiente medico-sanitario intorno al singolo individuo fornirgli le consapevolezze e gli strumenti per fare una libera scelta consapevole, che sarà però il singolo a fare considerando i suoi valori interni e i suoi obiettivi di vita: per un atleta ad esempio il realizzare le proprie passioni sportive -anche alla luce dei sacrifici e dei rischi ad esse correlate- può essere un proprio requisito e obiettivo personale di benessere e di vita.
Alex Honnold, free-solo climber su “El Capitan” nello Yosemite (2018)
LA RESPONSABILITÀ SOCIALE
Tornando all’immagine di sopra che rappresenta i determinanti della salute, è evidente e noto alla sociologia come i fattori ambientali, culturali e socioeconomici abbiano un peso importante sulla salute dell’individuo e siano di responsabilità collettiva, non individuale.
In questo senso è importante che la medicina si occupi anche di comprendere e individuare questi determinanti e promuovere misure politiche, sociali e culturali che abbassino le discriminazioni alla salute e ne agevolino l’accesso anche a gruppi sociali marginati, senza portare avanti la narrazione comune che scaricare l’intera responsabilità della propria salute e del proprio benessere sul singolo a suon di “se vuoi puoi”.
Come ci insegna il femminismo intersezionale: lo stato socio-economico, la razza, il genere, l’orientamento sessuale, la disabilità, la neurodivergenza, l’età e molto altro ancora sono tutti fattori che si “intersecano” e sommano tra loro determinando diversi livelli di accesso alla salute e al benessere (in una società che non è in grado di essere inclusiva e sostenere equamente tutte queste identità).
…AD ESEMPIO NELL’ALIMENTAZIONE, NEL MOVIMENTO E NELL’IMPATTO SU SALUTE E FORME CORPOREE E DISCRIMINAZIONI
Ad esempio, persone con basse risorse socioeconomiche
– hanno un potere di accesso inferiore alle cure mediche
– hanno un potere di accesso inferiore a cibi nutrienti e/o biologici (con inferiore presenza di contaminanti rischiosi sulla salute)
– potrebbero avere meno tempo da dedicare alla preparazione e al consumo dei cibi perché devono lavorare un numero maggiore di ore e/o a ritmi più serrati
– potrebbero avere meno tempo ma anche meno risorse monetarie da investire nell’esercizio fisico (esempio acquistando attrezzature o abbonamenti o servizi di personal training)
– potrebbero avere maggiori livelli di stress e minori risorse per accedere a servizi di supporto psico-emotivo
Tutto ciò influisce evidentemente sul loro benessere e sulla loro salute.
O ancora, persone che abitano corpi grassi o “non conformi” agli ideali estetici e di normalità culturali e sociali (profondamente grassofobici):
– risentono di body-shaming, microaggressioni (es sentirsi dire di dover perdere peso o che “si sarebbe meglio con qualche kg in meno”) e discriminazioni (es non avere vestiti della propria taglia e gusto, essere valutati inferiormente in ambito scolastico e lavorativo oltre che sociale-relazionale) che impattano negativamente sulla salute psicologica e sociale e sulla relazione con il corpo
– possono sentire forti pressioni a modificare il proprio corpo ricorrendo a strumenti di controllo non salutari e non efficaci a lungo termine o con severi effetti collaterali (es diete dimagranti, chirurgia barbarica) che ne peggiorano la salute psicofisica e il rapporto con cibo e corpo
Per queste ragioni come Dietista abbraccio approcci non focalizzati sul peso non prescrittivi anti-dieta ma soprattutto mi impegno nella divulgazione e nell’attivismo fat-liberation e fat- acceptance per ridurre gli stereotipi, i bias, le discriminazioni e le pressioni sociali sui corpi grassi.